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martedì 12 gennaio 2010

di Antigone Brambilla -

Venerdì 15 gennaio, presso la terza sezione della Corte d'Appello di Torino, si decideranno le sorti del diritto di satira via web. Sul banco degli imputati il blog "www.ilbolscevicostanco.com", ideato nel 2005 dal giornalista valdostano Roberto Mancini e chiuso alla fine del 2006, dopo aver subìto una condanna per diffamazione decisa dal tribunale di Aosta.
La sentenza ha suscitato forti critiche da parte di tutto il mondo dell'informazione, di "Reporters Sans Frontieres", oltreché del ministro Paolo Gentiloni, all'epoca titolare delle Comunicazioni. Il notissimo Diego Cugia, a nome degli autori Siae, l'ha definita una «grave sentenza che ha sotterrato la libertà di autore».
La sentenza di Aosta, oltre ad essere il primo caso in Europa di condanna di un blogger, presenta aspetti contradditori.

Lo stesso dispositivo di condanna riconosce «il carattere satirico della pubblicazione e il fondo di verità in linea generale ravvisabile in quanto esposto» e parla di «notizie veritiere» postate dal «generale Zhukov», il nickname con cui secondo l'accusa, si firmava Mancini.
Ma secondo il giudice monocratico Eugenio Gramola, che il 26 maggio di quattro anni fa ha condannato Mancini senza accordargli nemmeno le attenuanti generiche malgrado fosse incensurato, «chi gestisce un blog ha le stesse responsabilità di un direttore di giornale».

Un'equiparazione anomala quanto pericolosa tra doveri del blogger e doveri del direttore responsabile, che è costata al giornalista valdostano 13 mila euro tra ammende e risarcimento ai colleghi aostani che lo avevano querelato per diffamazione.

Insomma, per Gramola i blog e i giornali on line sarebbero la stessa cosa. Ma allora perché tutti i blogger italiani non diventano d'ufficio giornalisti professionisti? E perché tutto il resto del mondo, compresi gli Stati Uniti dove nel 2007 è nato il fenomeno, considerano il blog come un diario on line, collettivo o personale, un genere che dunque in nulla attiene ad un giornale?
Il diario del generale Zhukov era un contenitore privilegiato di frammenti di vita quotidiana valdostana, in breve tempo diventato la finestra sul mondo per oltre mille lettori alla settimana, una cifra enorme nella piccola regione (126.000 abitanti).

Quale dunque la sua colpa? Forse la graffiante ironia con cui riusciva a rendere grottesco il personaggio del momento? Ma non è questo che si chiede alla satira?
Il giudice Gramola, nel dispositivo di sentenza, disapprova il tono, il «carattere postribolare del linguaggio».

Ma Riccardo Pifferi, giornalista ed autore teatrale e televisivo, ha scritto in difesa di Mancini su Vivaverdi, mensile Siae:
«sono le parole, le metafore, la discesa nel linguaggio del volgo che costano a Mancini la condanna.
Insomma si condannano gli attrezzi della satira, gli utensili dell'autore».
Il linguaggio di un genere letterario può essere deciso da un giudice penale?

Se la Valle d'Aosta ha condannato un satiro per aver fatto null'altro che buona satira, confidiamo nel fatto che la Corte d'Appello di Torino non incorrerà nella stessa contraddizione.

nuovasocieta.it (R)

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